giovedì 15 luglio 2010

Rotelle di liquirizia

Per qualcuno potrebbero essere solo liquirizie a rotella. Per me, invece, quelle rotelle racchiudono ancora la dolcezza del ritorno a casa del mio babbo. 
Papà lavorava “fuori”, con tutto il fascino che quel fuori può rappresentare per un bambino. Fuori poteva essere Potenza, Capua, un paesino dimenticato del Molise. Per me, bimbetta dai cappelli a caschetto, fuori significava semplicemente che papà andava via il lunedì mattina all’alba e che sarebbe tornato solo il venerdì sera. Poi c’erano le telefonate, i «lì piove? Cosa hai mangiato?  Hai fatto la brava oggi?». C’era la voce, una voce cha a me sembrava sempre la stessa ma forse solo perché non ero in grado di percepire le note della stanchezza di chi ha una piccola società e tanto lavoro da portar avanti.
E poi c’era la malinconia della mamma. Quella sì, riuscivo a intuirla già allora. Il viso di mia mamma non è in grado di nascondere alcuna emozione. E, finalmente, c’era il venerdì sera e l’arrivo di papà. Rientrava, con gli occhi gonfi e il sorriso sulle labbra, e depositava una bustina sul tavolo della cucina. Chissà perché ma non è mai riuscito a superare l’imbarazzo di darmi un regalo. Neppure oggi che sono grande abbastanza e ci vediamo sempre meno. La distribuzione dei doni è compito della mamma, anche quando a voler fare un regalo è il babbo.
Le buste Haribo erano quelle che mi arrivavano con più frequenza e per me, che non ho mai avuto grosse pretese, non c’era regalo più magico di quelle liquirizie arrotolate o di quelle lunghelunghe. A volte arrivavano macchinine (sì, ero un maschiaccio), costruzioni, regali veri. Però io, ancora oggi, resto come ipnotizzata davanti allo scaffale dei bonbon tutte le volte in cui si fa sosta in autogrill. E penso al babbo.

Anche il signor valigiesogni, noto stachanovista, è spesso “fuori” per lavoro. Ora quel fuori ha sempre un nome diverso: Milano, Bologna, a volte Mestre. E, quando torna dalle sue trasferte, ha sempre una sorpresa per me. A volte si chiama Camilleri, a volte Savage, l’ultima volta si chiamava Carofiglio.
Ed io, nell’attesa, torno un po’ bambina, impaziente di buttargli le braccia al collo mentre sbircio quel volume che fuoriesce dalla tasca del trolley. 

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