“Ipocrita
poi di necessità, professionista dell’eufemismo e delle maniera, ma sempre
tentato dalla lustra ipogea; sicché non è chi nol vegga, l’Accademia della
Cantina gode […]”
Michele
Mari è uno che scrive così. Non usa il banale termine “dimezzato” bensì dimidiato,
nonché altre espressioni come sitibondo, indarno, ambagi piranesiane,
zaratustrici apoftegmi. Abituata ad una lingua sobria, contemporanea, talvolta
sin troppo giornalistica, il primo impatto non può che essere scioccante. Ma
che dice? Ma come parla? Ma cosa significa? Perché questo inutile sfoggio di
finta cultura? Poi, però, entro nel meccanismo, inizio a capire il gioco e, pur
non sapendo dire se mi piaccia o meno, non riesco ad interrompere la lettura.
Quando
chiudo il libro e apro la posta elettronica, leggo con fastidio la mail
sgrammaticata del cliente che utilizza le solite formule polverose. Non a caso,
questa qui si chiama burocrazia.
Forse
ha ragione Mari quando afferma che la letteratura deve avere una sua
personalità e che ci sono cose che possono essere belle solo se arcaiche e
sublimi. O forse esagera, ma lo dice con una tal convinzione da persuadermi.
Superato
lo spauracchio linguistico, posso concentrarmi sulla storia. Altra impresa complicata.
Dovrebbe
essere la sua autobiografia, scritta su intimazione della famigerata Accademia
dei Ciechi, ma a pagina 7 brancolo già nel buio.
Mari
inscena una situazione in cui i mostri veri della sua infanzia (il padre, il
nonno, le cinghiate…) si scontrano con i demoni della letteratura. Poe contro
Enzo Mari che, per carità!, non si osi chiamarlo con un affettuoso “babbo”,
altrimenti risponderà con uno sprezzante “fanciullo”.
Tipo
brusco Enzo Mari, re del design, padre anaffettivo, autoritario, ingombrante,
sempre sull’orlo di sfuriate pazzesche. Non va meglio con la madre, Gabriela,
con una sola L, poiché i nonni si erano augurati un bel maschio, da battezzare
Gabriele. Tale fu la delusione da limitarsi a mutare solo la vocale finale (mia madre crebbe sapendo di essere nata
sbagliata); poco importa, con il passare del tempo, tutti l’avrebbero chiamata Iela.
Prima
d’esser madre, Iela fu agile gazzella da roccia, inerpicata sulle vette con Bonatti e
Buzzati. Magra come un’acciuga ma “con una manina d’oro”, ad indicare la
precisione e il talento innato per il disegno. Donna asciutta che rifiutava
ogni frivolezza, sia nel vestire che nella cosmesi, come se ogni flagrante femminilità fosse un tradimento della propria
intelligenza e del proprio talento.
In
sintesi, un'infelicità costante, come documentano le foto che accompagnano la
narrazione: una raccolta di volti perennemente imbronciati.
Con
un’infanzia simile, non stupisce che Mari abbia trovato rifugio nella
letteratura, né che si sia inventato uno stile che, piaccia o meno, lo
contraddistingue dagli altri autori contemporanei.
Ma è poi un rifugio quello fornito dalla letteratura?
Fuggire
dai piccoli orrori della vita, fuggire dalla famiglia, per essere ghermiti dai
demoni non è un grande affare: o meglio lo è sotto l’aspetto
estetico-romanzesco, ma per il resto, credetemi, cinghia per cinghia… urlo per
urlo…
Due sono le volte in cui girai armata di vocabolario leggendo Angelo Maria Ripellino ed Hans Tuzzi, qui però mi descrivi un flotilegio lessicale, non è ostentazione?
RispondiEliminaOstentazione o, come mi ha detto qualcuno, ma quanto se la tira!
EliminaLa stranezza sta nel fatto che, da lettore, non ho avuto la percezione di uno stile troppo costruito. L’idea è che Mari sia così anche tra le mura domestiche (pensiero inquietante). Indubbiamente è un autore che non lascia indifferenti.
Comunque, mai mi sognerei di regalare un suo libro.
Florilegio, dannato correttore
RispondiEliminaAvvezza a Mari, ero subito andata a cercare “flotilegio”…
EliminaQuesto commento è stato eliminato da un amministratore del blog.
RispondiEliminaInteressanti queste recensioni incrociate dei blog che seguo. Ammetto che, senza aver letto il libro, è un po'scorretto qualsiasi commento ma, l'impressione che ne traggo, è che sia una sorta di riscatto dell'autore nella letteratura e, vista la tua chiosa (mai mi sognerei di regalarlo), mi vien da riassumere in: "Così è (se vi pare)". Buon fine settimana, cara amica!
RispondiEliminaRiassumi bene. Il libro era stato "somministrato" in uno dei miei gruppi di lettura da un appassionato di Mari. C'incontreremo questa settimana per la discussione. E sono certa che sarà un incontro/scontro perchè la sensazione è che se si ama Mari, ci si batta molto per motivare certe scelte stilistiche. Se non lo si ama affatto, ci si batterà molto per disintegrarlo. Non mi aspetto una serata piatta. Tutt'altro...
EliminaNon sono per niente attratta dall'idea dei gruppi di lettura e dalle discussioni collettive con dibattito a fine libro, ma vedendo le tue scelte e le tue esperienze, le cose che sei "costretta" a leggere e le tue sortite dalla comfort zone, ne sono quasi quasi tentata... comunque spesso dicono anche a me che "me la tiro", perché amo leggere romanzi un pochino al di sopra della media come "impegno" (che poi può essere appunto anche solo il non comprare il mondadori del momento). e in ogni caso mi piace molto imparare parole nuove: ieri in un romanzo (neanche troppo "impegnato") ho trovato la parola "samizdat": sono ore che me la rigiro in bocca per non dimenticarmela
RispondiEliminaGrazie a te ho appreso una parola nuova (che forse viene da un romanzo acquistato anche da me. Parliamo per caso di Le assaggiatrici?).
EliminaCapisco la tua posizione. Ero scettica anch'io. Poi, ho iniziato a partecipare ai gruppi di lettura, quasi per caso, qualche anno fa. Ora ne gestisco uno in biblioteca da diverso tempo (una delle esperienze migliori degli ultimi anni. E non sono una bibliotecaria, né lavoro in biblioteca), forse ne sto per far decollare un altro, ne frequento uno in libreria... Ho scoperto un mondo di persone in carne e ossa con cui parlare anche di libri. Ho ridotto drasticamente le mie frequentazioni virtuali e ho ricominciato a parlare con amici lettori davanti a un bicchiere di vino o nella saletta di una biblioteca. Sto imparando molto, anche se, scherzando, dico di non aver più una vita (di lettrice) privata.