Copia della biblioteca di Frascati |
Oggi che la mia vita
è cambiata così tanto, ci sono momenti in cui ripenso agli anni della mia prima
infanzia e mi ritrovo a dire: Non era poi chissà quale tragedia. E forse non lo
era. Ma ci sono anche momenti in cui, all’improvviso, mentre percorro un
marciapiede assolato, o guardo la chioma di un albero piegata dal vento, o vedo
il cielo di novembre calare sull’East River, mi sento invadere dalla
consapevolezza di un buio talmente abissale che potrei urlare, e allora entro
nel primo negozio di vestiti e mi metto a chiacchierare con una sconosciuta dei
modelli di maglioni appena arrivati. Deve essere il sistema che adottiamo quasi
tutti per muoverci nel mondo, sapendo e non sapendo, infestati dai ricordi che
non possono assolutamente essere veri.
Lucy Barton trascorre l’infanzia in un garage di
Amgash, un minuscolo paese di case mezze diroccate nell’Illinois, tra campi di
granturco e soia a perdita d’occhio e laggiù, in fondo, un allevamento di
maiali. Il padre di Lucy fa il trattorista, la madre fa riparazioni di
sartoria, la sorella maggiore ha un pessimo carattere e il fratello si diverte
a vestirsi da donna e indossare scarpe con i tacchi alti.
Al parco giochi i
bambini ci dicevano «La vostra famiglia fa schifo» e scappavano via tappandosi
il naso con le dita.
Così Lucy Barton assaggia sin da piccola il sapore della
solitudine, che non le si toglie più di dosso. Poi la maestra inizia a passarle
dei libri e lei si sente meno sola.
I libri mi davano
qualcosa. È questo che penso. E mi dicevo: Scriverò libri e le persone si
sentiranno meno sole.
Lucy Barton ancora non lo sa ma è una persona spietata, una che
riesce ad aggrapparsi a sé stessa e a scaraventarsi nella vita, salutando
tutti, garage e famiglia, che alla fine neanche le piaceva così tanto, e andarsene per
la sua strada.
Sono passati anni dall’infanzia ad Amgash e Lucy Barton, con la
sua nuova vita newyorchese e la stessa solitudine di sottofondo dei tempi del
garage, è in ospedale; nessuno capisce cosa abbia. Sua mamma, che non incontra da un
secolo, è venuta a trovarla. Non perché sia preoccupata o desideri vedere la
figlia, ma perché il genero l’ha chiamata, le ha pagato il biglietto aereo e le
ha detto di andare.
È un amore strano quello tra Lucy e la madre e si racchiude
tutto in quello star seduta ai piedi del letto, in una camera d’ospedale, e stringerle
un piede attraverso il lenzuolo mormorando «Ciao Bestiolina. […] Vedrai che
guarisci, non ho fatto nessun sogno». Un altro modo di dire «Tranquilla, non ti succederà nulla. Sono qui e ti voglio bene».
Anni senza una telefonata, una lacrima, una parola affettuosa, un
abbraccio. Un amore a distanza anche quando si è nello stesso luogo. Tu pensi
che di una mamma così, di due genitori così, non potrai mai sentir la mancanza.
Invece, quando li perdi, il mondo inizia a sembrarti diverso.
Sono le parole non dette a lasciar il segno in questo romanzo;
frasi asciutte, dirette, la palpabile percezione del vuoto anche se la tua
mamma è tutt’altro che silenziosa e assente.
Ciascuno di noi ha una sola storia e Lucy Barton, in poche pagine, ci racconta la
sua.
L’ho messo in valigia
per la trasferta al Festivaletteratura di Mantova. Perfetto per un viaggio in treno,
possibilmente in area silenzio, meglio se in autunno. Scenderete in stazione immalinconiti, ripensando alla storia di Lucy Barton e chiedendovi quale sia
la vostra unica storia e in quanti modi diversi l’abbiate già raccontata.
Elizabeth Strout, Mi chiamo Lucy Barton
(My name is Lucy Barton)
Trad. Susanna Basso, Giulio Einaudi Editore, 2016.