martedì 21 dicembre 2010

Dublinesque

Ci sono libri che non riescono a prenderti per mano. Non perché siano banali o scontati. Tutt’altro. Ne hai letto recensioni lusinghiere. L’incipit ti ha colpito subito; non puoi non sottolineare un periodo qui e uno là. Eppure non sei preso dalla smania di tuffarti tra le pagine, rubare tempo al lavoro, al sonno, ai doveri quotidiani per tornare alla tua storia. 
La lettura di Dublinesque è stata lenta, tortuosa, faticosa. Però non riuscivo a mettere da parte il libro e rimandarne la lettura a tempi migliori. Strano. Peraltro io sono una di quelle che non hanno alcuno scrupolo nell’interrompere un libro, riporlo e aspettare che sia lui a chiamare di nuovo. Ma questa volta nulla. Avanzavo a stento ma non riuscivo a volgere l’attenzione altrove. Una sorta di tigna tra me e un libro neppure tanto corposo.
“Appartiene alla stirpe ormai sempre più rara degli editori colti, letterari. E assiste tutti i giorni commosso allo spettacolo di come il ramo nobile delsuo lavoro – editori che ancora leggono e che sono sempre stati attratti dalla letteratura – in questo inizio di secolo vada estinguendosi silenziosamente. Due anni fa ha avuto problemi, ma ha saputo chiudere in tempo la casa editrice che, pur avendo raggiunto un notevole prestigio, procedeva tuttavia con sorprendente ostinazione verso il fallimento. In più di trent’anni di parabola indipendente c’è stato di tutto, successi ma anche pesanti sconfitte. La deriva della tappa finale la attribuisce alla sua resistenza a pubblicare libri di storie gotiche alla moda e altre inezie, e in questo modo trascura parte della verità: che non ha mai brillato per il suo talento nella gestione economica e che, inoltre, probabilmente è stato danneggiato dal suo fanatismo smisurato per la letteratura”.
Ora, è chiaro che un'opera che inizia così non la si può abbandonare a metà strada. Specie se il lettore, tra una vicissitudine e l’altra, ha incrociato il mondo dell’editoria e avrebbe tanto desiderato prolungarne la frequentazione. Manuel Riba, protagonista del romanzo (o, forse, co-protagonista, perché i protagonisti veri sono la Letteratura e l’Editoria), è l’editore che ciascun lettore sogna di poter incontrare prima o poi nella vita. 
Uno che "ha sempre ammirato gli scrittori che ogni giorno intraprendono un viaggio verso l’ignoto e tuttavia rimangono tutto il tempo seduti in una stanza. Le porte delle loro camere sono chiuse, non si muovono mai, ciononostante il confino offre loro l’assoluta libertà di essere chiunque vogliano essere, di andare ovunque li portino i loro pensieri. A volte collega questa immagine dei solitari nei loro luoghi di scrittura con quella che è stata l’ossessione di tutta la sua vita: la necessità di catturare un genio, un giovane che fosse molto superiore agli altri e che nella sua stanza viaggiasse meglio di chiunque altro. Gli sarebbe piaciuto scoprirlo e pubblicarlo, ma non l’ha trovato ed è del tutto improbabile che lo trovi ora”.
Un editore che ha trascorso la vita ossessionato dal suo catalogo; uno che si considera tanto lettore quanto editore, uno che “ha rinunciato alla gioventù per cercar l’opera onesta di un catalogo imperfetto; ed ora che tutto è finito gli rimane una sensazione da chi me l’ha fatto fare. Un rimorso aspro durante le notti. Ma nessuno può privarlo dell’aver avuto un desiderio e di aver cercato di realizzarlo”. 
Una velata accusa verso un’editoria che ha sempre meno il coraggio di rischiare. Si pubblica ciò che presumibilmente venderà. Poco conta la qualità dell’opera perché i lettori, si sa, sono un po’ ottusi. È come con la televisione: i lettori, come i telespettatori, hanno bisogno di distrarsi mica di capire, approfondire, pensare.
In Dublinesque c’è lo spettro dell’editoria digitale che fagocita il libro; c’è Google che risucchia il lettore; c’è il bestseller che offusca la Letteratura. In Dublinesque si aggirano le più disparate presenze: fantasmi di scrittori, protagonisti di celebri romanzi, autori sognati e mai incontrati, amori finiti…
E poi c’è una malinconia di sottofondo e un senso di incomprensione, di sfuggevolezza, che ti accompagnano fino alla fine. 
Succede quindi che, nonostante una certa difficoltà di lettura, Enrique Vila-Matas ti costringe a terminare il suo Dublinesque, a farti tornare sui capoversi sottolineati, a farti cercare le opere citate e a farti aggiungere almeno un paio di titoli a lui riconducibili nella tua wish list per le prossime letture. 
Niente male per un libro che non è riuscito a prenderti per mano.

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