Non
a tutti è dato di essere un Marco Polo e nemmeno una Freya Stark, ma nonostante
questo, siamo in milioni a viaggiare. I grandi viaggiatori, viventi o del
passato, sono una categoria a sé stante di professionisti inarrivabili. Noi
siamo semplici dilettanti e, se pure abbiamo i nostri momenti di gloria,
perdiamo le energie e il vigore, viviamo anche momenti di amarezza. Chi non ha
mai sentito, pensato o detto: «Santo cielo, mi hanno perso un’altra volta i
bagagli!», «Siamo arrivati fino a qui per vedere quella roba?», «Perché devono
fare tutto quel fracasso?» […]
Eppure
insistiamo e facciamo il possibile per vedere il mondo e per muoverci:
arriviamo dappertutto. Quando torniamo, non c’è nessuno che si presti volentieri
ad ascoltare i nostri racconti. «Com’è andato il viaggio?», ci chiedono. «Stupendo.
A Tblisi ho visto…». Occhi sgranati. Appena lo permette la buona educazione (o
anche prima), la conversazione si sposta su qualche pettegolezzo, lo scandalo
politico del momento, lo show della sera prima alla televisione. L’unico caso in cui un nostro viaggio ci
garantisce un uditorio attento è un disastro. «Il cammello ti ha disarcionato
e ti sei rotto una gamba?», «Hanno chiuso a chiave la sauna di Vijipuri e ti
hanno dimenticato dentro?». Ecco cosa li diverte. Non ci lasciano nemmeno
finire di raccontare e si lanciano nelle descrizioni delle loro sofferenze in
lande remote.
Martha Gellhorn non leggeva libri di viaggio, preferiva viaggiare. Viaggiava per
curiosità, per incapacità di star ferma nello stesso luogo, per documentare
guerre, per capire come vivessero le persone negli angoli più remoti della
terra, per scoprire acque limpide in cui nuotare, perché suggestionata da nomi
magici: Pechino, Samarcanda, Costantinopoli, Tahiti. Fumava, beveva whisky,
negli anni Sessanta guadava fiumi in Uganda alla guida di una Land Rover scassata; non partiva mai senza
una buona scorta di gialli; non amava circondarsi di oggetti inutili, pensava
che il possesso la rendesse schiava e non sentiva la necessità di acquistare
cose che non le servivano. Era una donna pratica, un po’ incosciente, maniaca
dell’igiene e della pulizia; inorridiva al pensiero di non potersi lavare i
denti sul fiume Chiang Jiang, mentre i giapponesi bombardavano i cinesi.
Preferiva
viaggiare da sola, ma nel 1941 costrinse il Compagno Riluttante ad andare dove non aveva nessuna intenzione
di andare. In quegli anni, la giornalista Martha Gellhorn lavorava per il
Collier’s e il suo direttore le diede l’incarico di documentare la guerra
sino-giapponese.
«Ero ben decisa a vedere l’Oriente prima di morire, prima
della fine del mondo o di qualsiasi cosa sarebbe poi capitata». Da appassionata
corrispondente di guerra, non avrebbe mai rinunciato a quell'opportunità. Ma
ebbe la malaugurata idea di convincere il Compagno Riluttante (CR) a partire
con lei. CR era Ernest Hemingway, suo marito dal 1940 al 1945: sposati dopo la
guerra di Spagna, separati dopo lo sbarco in Normandia.
Quel gran bevitore di Hemingway non aveva trascorso gli anni della sua formazione a bighellonare sui tram e a imbottirsi la testa con i romanzi di Somerset Maugham, come aveva fatto, invece, sua moglie. Così, mentre Martha andava in giro a tastare il polso della nazione, CR preferiva
andare a caccia nelle colline circostanti e sbevazzare qualsiasi cosa (compreso
il vino di serpente) con chiunque. Senza
perdere mai l’occasione di rinfacciarle che era finito in Cina per assecondarla.
Il nome di Hemingway non viene mai menzionato nel devastante viaggio cinese;
Martha Gellhorn si riferisce a lui chiamandolo sempre the Unwilling Companion (nella traduzione italiana Compagno
Recalcitrante), il “qualcuno” del titolo.
Il
viaggio in Cina con qualcuno rientra
tra i cinque horror trips, le cinque
esperienze di viaggio più disastrose, che Martha Gellhorn ci racconta in questo
libro. In una piagnucolosa lettera, inviata a sua mamma, scrisse: «La Cina mi
ha guarito. Non voglio viaggiare più». Ma Martha era una viaggiatrice
incurabile, nessuna disavventura avrebbe potuto guarire la sua smania di
viaggiare.
Tra
gli altri horror trips racchiusi in
In viaggio da sola e con qualcuno c’è il suo primo incredibile viaggio alla
scoperta dell’Africa; un viaggio folle nel 1942 tra le isole caraibiche per
documentare la guerra tra le forze marine Alleate e la flotta sottomarina
tedesca; un viaggio in Israele in cui Martha tenta di comprendere la filosofia
di una comunità hippy (comunità troppo fumata per poter comunicare qualsiasi
cosa); un viaggio nella lontana Russia solo per conoscere Nadežda Jakovlevna
Chazina, vedova del poeta Osip Emil’evič Mandel’štam.
Nel
1998, all’età di 89 anni, ormai malata e quasi cieca, Martha ingerì un paio di
pillole pensando forse non avesse più senso continuar a vivere senza poter viaggiare,
leggere e nuotare.
Se
avessi scoperto questo libro una ventina di anni fa, avrei fatto ciò che lei
considerava normale: inviare una lettera alla scrittrice, ringraziandola per
avermi fatto sorridere e per avermi concesso di favoleggiare sui tempi in cui
il Kenya non era sinonimo di resort e
le isole caraibiche erano un angolo di paradiso (nonostante una guerra mondiale).
Ma sono arrivata tardi e posso solo ringraziare le biblioteche di Roma per
avermi fatto leggere questo volume ormai fuori catalogo.
Travels with Myself and Another (1978) è stato pubblicato in Italia
nel 2006 da FBE edizioni nella traduzione di Guido Lagomarsino e non credo sia
mai stato ristampato. Peccato. Però, lo si può acquistare facilmente in lingua
originale o approfittare dell’occasione per una spedizione sui banchetti dell’usato. Con un po' di fortuna...