Si fa presto a dire trekking. Le vette, il silenzio, il cielo
azzurro, le malghe, nuovi amici… Poi guardo lo zaino, il pile, la carta
igienica, il sacco lenzuolo e mi chiedo come diamine mi sia passato in mente di
iscrivermi ad un trekking tre orme. Il sacco lenzuolo, questo sconosciuto: fino
ad un mese fa non sapevo neanche cosa fosse!

Insomma, bella la montagna quando si sale con uno zainetto
leggero leggero, ci si inerpica, si cammina tanto, d’accordo, ma poi si torna
nel proprio alberghetto, c’è un’ottima cena pronta, con tanto di vinello e
dolce tipico, un letto comodo, da non condividere con nessuno (se non con il
proprio compagno) e un bagno tutto per sé. Quel sacco lenzuolo e quel rotolo di
carta igienica, invece, hanno un ché di inquietante. Sì, è vero, non soffro di
vertigini e non sono troppo schizzinosa; mi preoccupa più una serata di gala
che un bagno alla turca, quindi dovrei cavarmela. Epperò se becco tutti
escursionisti esperti e a me prendono le crisi di panico e, per colpa mia,
tutto il gruppo è costretto a rallentare? E se poi sono tutti della Lega? No,
certo che non ho pregiudizi; anche tra i leghisti ci saranno delle brave
persone, mica sono tutti cloni di Calderoli… e poi uno può essere del Nord
senza essere leghista; o no? Ma poi, tre magliette saranno sufficienti per una
settimana? E comunque, qualche calzino in più me lo porto, non si sa mai.
Tra una sega mentale e l’altra, il mio zainetto di 8,7 kg è
pronto. Pesante ma gestibile.
Le remore sui compagni di trekking sono svanite un paio d’ore
dopo le presentazioni. Una banda allegra, non facilmente classificabile, tutti
accomunati dal senso dell’umorismo e dalla risata contagiosa. Trekkers più
esperti di me, abituati ai lunghi percorsi e allo zaino pesante ma nessun
fanatico ossessionato dalla camminata veloce.
C’è stato sempre il tempo per
ammirare un paesaggio, sfogliare la guida per individuare un fiore sconosciuto,
dare una mano a chi era bloccato su un sasso e aspettare chi stava facendo
pipì.
Il programma della Compagnia dei cammini prometteva questo:
Veny – La Thuile – Piccolo San Bernardo – Grisenche.
Valli famose in tutto il mondo per la loro straordinaria bellezza. Laghi,
cascate, ghiacciai, vette, rifugi, malghe e villaggi. Parole, racconti ed
emozioni di carta. Paesaggi e poesia alla ricerca dell’armonia. Uniremo i passi
del nostro camminare con le parole delle nostre letture preferite. Partiremo da
Courmayeur, ai piedi del massiccio del Monte Bianco. Lentamente risaliremo i
pendii che delimitano la Val Veny e attraverseremo tre valli, sfilando sotto il
massiccio del Monte Bianco, sotto la Testa di Rutor, verso il Gran Paradiso.
Sentieri tranquilli e poco frequentati nonostante il periodo affollato.
Ci specchieremo in laghetti alpini limpidissimi ai
piedi di ghiacciai perenni. Leggeremo brani, storie, racconti, poesie, ispirati
da quei luoghi selvaggi e affascinanti.
Promessa mantenuta anche grazie alla guida eccezionale,
alpinista, skipper, viaggiatore entusiasta, buongustaio, innamorato e profondo
conoscitore della Valle d’Aosta.
Sempre pronto a raccontare aneddoti,
condividere letture, esperienze, storie. Osservazione di un compagno di
trekking: «È la prima persona che incontro che parla tanto dicendo sempre cose
interessanti».
Una di quelle persone che fanno le cose per passione, che
vogliono farti scoprire il piacere della montagna, del fuori percorso, della
scoperta del sentiero nuovo.
Una persona che non conosce la fatica. Alla fine
lo prendevamo un po’ in giro il nostro Claudio: «10 minuti e siamo arrivati». E
noi: «Allora tra un’oretta dovremmo esserci!»
Lui: «Ora andiamo di qua,
abbandonando il sentiero tracciato».
Noi: «Ma va?! Perché seguire un sentiero
comodo quando possiamo agevolmente perderci in un percorso sconosciuto?»
Grazie ai suoi fuori percorso e alle strade alternative abbiamo
scoperto luoghi bellissimi anche se non sempre comodi.
Sin dal primo giorno, percorrendo il sentiero attrezzato (catene
e gradini in ferro) che tra una salita e una zona ombreggiata ci avrebbe
condotto sul Mont Chetif, ho capito
che non era proprio un trekking semplice. Confesso di essermi lasciata prendere
dalla paura del vuoto e di essermi strenuamente aggrappata ai miei bastoncini
telescopici. Sì, va be’, i bastoncini servono per scaricare il peso e dare una
mano alle ginocchia soprattutto nella discesa, però in un momento d’agitazione,
non potendo contare su nient’altro, è utile concentrarsi sul loro movimento,
guardare a terra e ripetersi che, se sopravvivi, non lo farai mai più. Poi
arrivi in vetta, guardi l’infinito e quasi ti fa male tutta quella bellezza.
Allora ci ripensi e ti chiedi perché tu non l’abbia fatto prima.
Giorno dopo giorno, la paura del vuoto si trasforma in un lieve
disagio che lentamente svanisce. La teoria dei piccoli passi. Si mette un piede dopo l’altro, si
sceglie il punto d’appoggio migliore, non si guarda né troppo in alto né troppo
in basso ma ci si concentra sui particolari del momento; si individua il
sentiero percorribile. Ce n’è sempre uno: basta cercarlo. E, lentamente, si
arriva alla meta, senza farsi impressionare troppo dalle salite né farsi paralizzare
dalle discese.
Del rifugio avevo un’idea romantica. Luogo di sosta e pace per
corpi spossati e infreddoliti; una pausa per ritemprarsi prima di riprendere il
cammino. Idea romantica stroncata dal rifugio Elisabetta.
€ 2,50 per una doccia gelida, 4 bagni per 80 persone, una
ventina di persone che tentavano di dormire in una stanza, schiena a pezzi.
Niente sonno ristoratore ma siamo sopravvissuti tutti.
Le altre notti sono
state poco confortevoli ma meno agitate. Sono tornata a casa con una nuova consapevolezza:
è bello dormire con un uomo che non russa.
Abbiamo letto brani di Erri De Luca prima di andare a cena,
brani di Terzani a lume di candela e torcia frontale dopo cena, brani di
Buzzati, sorseggiando Genepì intorno
ad un fuoco acceso, sovrastati da un cielo stellato che a 2.000 metri è
stellato davvero.
Abbiamo letto la storia della Valgrisenche, stravaccati al sole, davanti al Lac du Fond, abbiamo letto descrizioni divertenti (e
irriverenti) dei primi escursionisti inglesi che attraversavano le Alpi, abbiamo
riso nei momenti di maggior stanchezza leggendo Stefano Benni. Ho
scoperto nuove voci, nuovi titoli e mi son rammaricata di non aver tirato fuori
il mio Il mondo a piedi. Elogio
della marcia. Non mi sembrava mai il momento appropriato e le letture altrui
avevano sempre maggior fascino.

Abbiamo visto panorami commoventi; l’immensità del Monte Bianco, il Dente del Gigante che fa capolino tra le nuvole, il verde infinito,
i ruscelli gelidi; i sentieri selvaggi la cui bellezza stride accanto alla
montagna deturpata dagli impianti di risalita e dalle piste da sci. Coperte
dalla neve, magari, quelle vette là hanno ancora il loro fascino, ma viste
così, ignude, con tralicci e strutture in cemento ti viene da scuotere la
testa, abbassare lo sguardo e continuare a camminare, alla volta di percorsi
impervi ma ancora vergini. Splendide vie disegnate dalla natura che contrastano
con le brutture create dall’uomo.
Alla fine, il momento più difficile è stato quello dei saluti.
Quando ti riprometti che non ti perderai di vista perché hai condiviso tanto in
pochi giorni. Però sai che è stato un momento troppo magico, tutti i tasselli
si sono incastrati nel posto giusto. E i momenti così sono irriproducibili.
E
vai via mestamente, con quel nodo alla gola che lasciano le giornate di
infinita bellezza.