sabato 24 novembre 2018

Handmade


Apro la posta elettronica e inizio a maledire il Black Friday che ha triplicato la spazzatura che riempie quotidianamente la mia casella (non c’è opzione unsubscribe che tenga. Non so quante volte avrò ordinato a destra e manca di cancellarmi da iscrizioni mai scientemente chieste). Sì, ho avuto anch’io la tentazione di approfittare di sconti favolosi che mai, dico mai, mi capiteranno più nella vita. E quando ho realizzato che stavo perdendo tempo su un sito, facendomi influenzare dalla follia che ci circonda, pronta a tirar fuori la carta di credito per acquistare una roba di cui non ho alcuna necessità, mi sono data della cretina e ho chiuso tutto.
Comunque, la vita dell’aspirante consumatrice consapevole è durissima. C’è voluto un po’ prima di trovare il canale giusto per ricevere miele, frutta e verdura dai piccoli produttori locali (no, non è una scelta basata sul risparmio, ma i prodotti sono buoni e me li consegnano a casa); anche trovare il posto giusto per caffè e cornetto non è stata mica una passeggiata (spiace vedere l’elevato turnover del personale del baretto vicino l’ufficio e comprendere che il malcontento derivi dal lavoro mal retribuito e irregolare). E l’abbigliamento? Non rinnovo il guardaroba ogni cambio di stagione, però qualche domanda di fronte a quegli abitini tutti identici, a prezzi irrisori, me la faccio anch’io. Ma se volessi indossare qualcosa di più originale senza spendere un patrimonio e con la speranza di pagare equamente il lavoro altrui?
Mi sono ricordata di un’amica che creava gioielli artigianali e che aveva aperto il suo negozietto sulla piattaforma Etsy. Ora, io non so se anche dietro Etsy ci siano delle fregature, certo è che la mia prima esperienza di acquisto è stata positiva.
Ho scovato la giovane Giulia e la sua passione di coniugare la moda con qualsiasi forma artistica (dalla pittura alla letteratura). Giulia è di Padova, il suo spazio su Etsy si chiama Abricot Atelier e pochi giorni fa ho ricevuto il mio acquisto.


Confezionato con amore, curato nei dettagli, pensato nei minimi particolari. Le attenzioni di Giulia sono state tali da farmi pensare d’aver ricevuto un regalo, e non di aver speso dei soldi.


L’abito (perfetto) e la gonna (morbidissima e ben cucita) sono stati accompagnati da un grazioso taccuino per “annotare i tuoi momenti di bellezza e poesia”.
Grazie Giulia, continua a far danzare le tue mani e la tua fantasia.

martedì 13 novembre 2018

In viaggio con Martha Gellhorn e con qualcuno


Non a tutti è dato di essere un Marco Polo e nemmeno una Freya Stark, ma nonostante questo, siamo in milioni a viaggiare. I grandi viaggiatori, viventi o del passato, sono una categoria a sé stante di professionisti inarrivabili. Noi siamo semplici dilettanti e, se pure abbiamo i nostri momenti di gloria, perdiamo le energie e il vigore, viviamo anche momenti di amarezza. Chi non ha mai sentito, pensato o detto: «Santo cielo, mi hanno perso un’altra volta i bagagli!», «Siamo arrivati fino a qui per vedere quella roba?», «Perché devono fare tutto quel fracasso?» […]
Eppure insistiamo e facciamo il possibile per vedere il mondo e per muoverci: arriviamo dappertutto. Quando torniamo, non c’è nessuno che si presti volentieri ad ascoltare i nostri racconti. «Com’è andato il viaggio?», ci chiedono. «Stupendo. A Tblisi ho visto…». Occhi sgranati. Appena lo permette la buona educazione (o anche prima), la conversazione si sposta su qualche pettegolezzo, lo scandalo politico del momento, lo show della sera prima alla televisione. L’unico caso in cui un nostro viaggio ci garantisce un uditorio attento è un disastro. «Il cammello ti ha disarcionato e ti sei rotto una gamba?», «Hanno chiuso a chiave la sauna di Vijipuri e ti hanno dimenticato dentro?». Ecco cosa li diverte. Non ci lasciano nemmeno finire di raccontare e si lanciano nelle descrizioni delle loro sofferenze in lande remote.

Martha Gellhorn non leggeva libri di viaggio, preferiva viaggiare. Viaggiava per curiosità, per incapacità di star ferma nello stesso luogo, per documentare guerre, per capire come vivessero le persone negli angoli più remoti della terra, per scoprire acque limpide in cui nuotare, perché suggestionata da nomi magici: Pechino, Samarcanda, Costantinopoli, Tahiti. Fumava, beveva whisky, negli anni Sessanta guadava fiumi in Uganda alla guida di una  Land Rover scassata; non partiva mai senza una buona scorta di gialli; non amava circondarsi di oggetti inutili, pensava che il possesso la rendesse schiava e non sentiva la necessità di acquistare cose che non le servivano. Era una donna pratica, un po’ incosciente, maniaca dell’igiene e della pulizia; inorridiva al pensiero di non potersi lavare i denti sul fiume Chiang Jiang, mentre i giapponesi bombardavano i cinesi.
Preferiva viaggiare da sola, ma nel 1941 costrinse il Compagno Riluttante ad andare dove non aveva nessuna intenzione di andare. In quegli anni, la giornalista Martha Gellhorn lavorava per il Collier’s e il suo direttore le diede l’incarico di documentare la guerra sino-giapponese
«Ero ben decisa a vedere l’Oriente prima di morire, prima della fine del mondo o di qualsiasi cosa sarebbe poi capitata». Da appassionata corrispondente di guerra, non avrebbe mai rinunciato a quell'opportunità. Ma ebbe la malaugurata idea di convincere il Compagno Riluttante (CR) a partire con lei. CR era Ernest Hemingway, suo marito dal 1940 al 1945: sposati dopo la guerra di Spagna, separati dopo lo sbarco in Normandia.
Quel gran bevitore di Hemingway non aveva trascorso gli anni della sua formazione a bighellonare sui tram e a imbottirsi la testa con i romanzi di Somerset Maugham, come aveva fatto, invece, sua moglie. Così, mentre Martha andava in giro a tastare il polso della nazione, CR preferiva andare a caccia nelle colline circostanti e sbevazzare qualsiasi cosa (compreso il vino di serpente) con chiunque. Senza perdere mai l’occasione di rinfacciarle che era finito in Cina per assecondarla. 
Il nome di Hemingway non viene mai menzionato nel devastante viaggio cinese; Martha Gellhorn si riferisce a lui chiamandolo sempre the Unwilling Companion (nella traduzione italiana Compagno Recalcitrante), il “qualcuno” del titolo.
Il viaggio in Cina con qualcuno rientra tra i cinque horror trips, le cinque esperienze di viaggio più disastrose, che Martha Gellhorn ci racconta in questo libro. In una piagnucolosa lettera, inviata a sua mamma, scrisse: «La Cina mi ha guarito. Non voglio viaggiare più». Ma Martha era una viaggiatrice incurabile, nessuna disavventura avrebbe potuto guarire la sua smania di viaggiare.
Tra gli altri horror trips racchiusi in In viaggio da sola e con qualcuno c’è il suo primo incredibile viaggio alla scoperta dell’Africa; un viaggio folle nel 1942 tra le isole caraibiche per documentare la guerra tra le forze marine Alleate e la flotta sottomarina tedesca; un viaggio in Israele in cui Martha tenta di comprendere la filosofia di una comunità hippy (comunità troppo fumata per poter comunicare qualsiasi cosa); un viaggio nella lontana Russia solo per conoscere Nadežda Jakovlevna Chazina, vedova del poeta Osip Emil’evič Mandel’štam.  
Nel 1998, all’età di 89 anni, ormai malata e quasi cieca, Martha ingerì un paio di pillole pensando forse non avesse più senso continuar a vivere senza poter viaggiare, leggere e nuotare.
Se avessi scoperto questo libro una ventina di anni fa, avrei fatto ciò che lei considerava normale: inviare una lettera alla scrittrice, ringraziandola per avermi fatto sorridere e per avermi concesso di favoleggiare sui tempi in cui il Kenya non era sinonimo di resort e le isole caraibiche erano un angolo di paradiso (nonostante una guerra mondiale). Ma sono arrivata tardi e posso solo ringraziare le biblioteche di Roma per avermi fatto leggere questo volume ormai fuori catalogo. 
Travels with Myself and Another (1978) è stato pubblicato in Italia nel 2006 da FBE edizioni nella traduzione di Guido Lagomarsino e non credo sia mai stato ristampato. Peccato. Però, lo si può acquistare facilmente in lingua originale o approfittare dell’occasione per una spedizione sui banchetti dell’usato. Con un po' di fortuna...