Rodrigo Hasbún presenta Andarsene, con il supporto della traduttrice Giulia Zavagna, in un
rumoroso spazio del Salone del Libro di Torino. Io sono seduta lì per la pura
curiosità di ascoltare un autore boliviano, paese di cui non so nulla. Guardo
questo ragazzo moro, che parla lentamente e a voce bassa, la camicia a quadri, la
barba incolta, ogni tanto si risistema gli occhiali sul naso. Riflette sulle
domande di Peano, sorride poco, non sembra interessato ad accattivarsi le simpatie
dei presenti.
Se sento l’urgenza di acquistare Andarsene non è per la voce di Hasbún, ma per lo sguardo di Giulia Zavagna. Parla di Los afectos
con gli stessi occhi di una donna che ha appena ricevuto una carezza dal
proprio compagno. Vorrebbe far capire che esperienza straordinaria sia stata
tradurre questo libro, ma non trova le parole; e resta quel luccichio degli
occhi che occupa lo spazio delle frasi non dette.
Andarsene, era questo che papà sapeva fare meglio, andarsene ma
anche tornare, come un soldato sempre in guerra, giusto il tempo di radunare le
forze per andarsene una volta ancora.
A volerlo riassumere sbrigativamente, si potrebbe dire che Andarsene è l’occasione per raccontare
una famiglia e un certo periodo storico; oppure che è un libro che narra gli affetti e gli effetti (come ben sintetizzato dal titolo spagnolo Los afectos, intraducibile in italiano).
Gli affetti, i vincoli, le relazioni che stringiamo con mogli, figli, compagni,
sorelle, genitori; e gli effetti, le conseguenze sulle vite altrui che
scaturiscono da questi vincoli.
Papà sapeva i nomi di mille esploratori, io no. Mi mancava un
anno di scuola e le mie preoccupazioni erano altre, per esempio cosa avrei
fatto dopo. La Paz non era poi così male, ma era caotica e lì non avremmo mai
smesso di essere degli stranieri, gente venuta da un altro mondo, un mondo
vecchio e freddo.
Andarsene è un romanzo, pura immaginazione, ma c’è dentro la famiglia
degli Ertl, Leni Riefenstahl, la fuga dei collaboratori e di molti
simpatizzanti del nazismo tedesco in Bolivia, la guerriglia rivoluzionaria, le
mani amputate del Che, Monika Ertl, Vittoria o morte.
Andarsene è Paitití, la leggendaria città inca, rimasta sepolta nella foresta
amazzonica. Andarsene è fuggire dalle
cose orribili del mondo e cercare un rifugio sicuro nell’utopia della foresta.
L’ho letto fino alla fine senza fare ricerche, senza indagare
sul movimento nazionale rivoluzionario e la nazionalizzazione delle miniere. Sono
caduta nel romanzo e per uscirne sono andata su Google e ho iniziato a riempire
le caselline vuote e a separare la storia dalla finzione. Ho trovato un padre cineasta,
fotografo, esploratore e tre figlie completamente diverse: quella sentimentale,
legata agli affetti e alla memoria, quella radicata all’Europa, e la
rivoluzionaria, la donna che poi ha
causato tanto dolore.
Sono i silenzi a rendere
così potente Andarsene. Se Hasbún
avesse raccontato la stessa storia in 500 pagine, avrebbe scritto solo un bel
romanzo, ma avrebbe detto troppo e non avrebbe lasciato spazio alla curiosità
del lettore. Invece ha condensato la narrazione in 120 pagine, costringendomi
a sottolineare e annotare ogni capitoletto.
Il silenzio è fondamentale, aveva detto papà diverse volte da
quando eravamo partiti; gli esploratori sono persone in grado di ascoltare
meglio di chiunque altro, persone che devono stare attente a ciò che le
circonda.
Qui, lo sguardo della Zavagna che vi parla di questo libro non
posso proprio riproporlo; ma se vi è venuta curiosità e deciderete di leggere Andarsene, ripassate da queste parti per
raccontarmi le vostre impressioni.
Rodrigo Hasbún, Andarsene, trad. Giulia Zavagna, SUR, Roma,
2016.
uh come sei! un'ammaestratrice di scimmie curiose
RispondiEliminaConoscendoti lo leggerai in un pomeriggio. E poi ripasserai qui... O magari ne scriverai a tua volta. 😊
EliminaUn bel romanzo, davvero. Hai ragione a dire che sono i silenzi quello che dà maggiore valore al romanzo. Sono d'accordo: l'autore ha scritto davvero l'essenziale per raccontare questa storia.
RispondiEliminaAndrea
Io credevo fosse un romanzo oggettivamente bello, che dovesse piacere necessariamente. Quando ho scoperto che non tutti ne erano rimasti incantati, ho sentito una punta di delusione. Neanche fossi l'autore.
EliminaI libri intriganti, come questo, sono quelli che dopo averne terminato la lettura lasciano un "vuoto pieno", come lo definisco io: il vuoto per averlo finito, il pieno che colma quel vuoto attraverso le pagine scritte (anche virtualmente) dal lettore che si va a documentare, stimolato dallo scrittore.
RispondiEliminaIl vuoto pieno è una delle definizioni più belle che abbia mai sentito. Posso avvalermi del diritto di utilizzare questa espressione?
EliminaCerto! Vorrà dire che, come la Lusitanitudine, prima o poi pubblicherò un glossario. ;-)
Eliminaè strano trovare un libro così breve e così intenso!
RispondiEliminaio l'ho ascoltato alla grande invasione a ivrea e concordo sullo sguardo della traduttrice