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lunedì 28 maggio 2012

La velocità della luce



Javier Cercas, La velocità della luce
Ed. Guanda, trad. Pino Cacucci.

Al Salone internazionale del libro di Torino ho ascoltato un paio di interventi di Javier Cercas. Prima di allora non sapevo chi fosse, né avevo mai sentito parlare del suo - ho scoperto, fortunato libro - I soldati di Salamina. Mi è sembrato un uomo molto divertente, ironico, prodigo di osservazioni acute e con una buona conoscenza della lingua italiana. 
Istintivamente ho acquistato un suo libro. Non I soldati di Salamina ma il meno venduto La velocità della luce, opera scritta e pubblicata immediatamente dopo il suo grande successo. Una scelta irrazionale: non ne avevo letto alcuna recensione, non me ne aveva mai parlato nessuno; ho preso il libro senza sbirciare né l’incipit né la trama
Ammetto che le prime pagine non mi hanno catturato ma da un certo punto in poi non ho fatto altro che leggere e rimuginare, passare dal romanzo alla quotidianità, dalla finzione alle guerre che si combattono per la pace e per la democrazia di generici paesi terzi, che ci dicono essere “in via di sviluppo”; quelle guerre che da anni imperversano sui nostri quotidiani e che non consideriamo mai vere e proprie guerre.
La velocità della luce ruota intorno a grandi temi: la scrittura, il senso di colpa, il successo, la guerra del Vietnam, i problemi morali e civili. L’io narrante è un giovane catalano squattrinato che sogna di diventare uno scrittore e che, nell’arco dei diciassette anni ripercorsi nel romanzo, lo diventerà. Uno scrittore di successo. Insomma, una biografia fittizia dello stesso Cercas.   
Ma il successo non migliora la vita, anzi fa emergere il lato peggiore del carattere del protagonista. Il successo riesce a trasformare un ragazzo umile e sensibile in un uomo strafottente, volgare, prepotente. Il successo di uno scrittore può distruggere l’identità dell’uomo che abitava quello scrittore.   

Adesso conduco una vita falsa, una vita apocrifa, clandestina e invisibile sebbene più reale che se fosse vera, ma io ero ancora io quando conobbi Rodney Falk. Fu molto tempo fa e avvenne a Urbana, una città del Midwest degli Stati Uniti, dove vissi due anni verso la fine degli anni ottanta. A essere sincero, ogni volta che mi chiedo perché finii proprio lì mi dico che andai a parare da quelle parti come sarei potuto andare in qualsiasi altro posto. Racconterò perché, invece di andare a parare in qualsiasi altro posto, finii proprio lì.

Rodney Falk è l’altro protagonista del romanzo.

Era alto, corpulento, un po’ sgraziato; camminava con lo sguardo fisso a terra e a falcate irregolari, sbandando sulla destra con una spalla più alta dell’altra, cosa che conferiva al suo incedere un’instabilità ondeggiante da pachiderma sul punto di crollare a terra. Aveva i capelli lunghi, folti e rossicci, e la faccia ruvida e larga, la pelle lievemente arrossata e i lineamenti come scolpiti sul cranio: il mento squadrato, gli zigomi sporgenti, il naso aquilino e la bocca piegata in una smorfia ironica o sprezzante […] Soffriva di fotofobia a un occhio, il che lo costringeva a proteggerlo dalla luce del sole con una benda di stoffa nera legata alla testa con un nastro, una toppa che gli dava un’aria da ex combattente, suffragata dall’andatura zoppicante e dal corpo leso.  

Rodney Falk non ha amici, è un uomo taciturno, un tipo strambo. È un veterano del Vietnam, uno dei tanti diciottenni costretti dal proprio Paese a mettere a tacere la coscienza e a compiere il proprio dovere di buoni americani, a perpetrare le peggiori atrocità in una guerra estranea ed assurda per poi tornare in Patria ed essere trattati da criminali; disprezzati e rinnegati per aver combattuto una guerra ingiusta e essere tornati da perdenti.
La velocità della luce è dominato dal senso di colpa. Un senso di colpa che nasce dalla violazione delle proprie regole di condotta; il senso di colpa per aver tradito la propria coscienza, il proprio credo, i principi su cui era stata fondata la propria esistenza.
Non è una storia a lieto fine; non si capisce cosa spinga un uomo a fare del male ad altri uomini; non c’è un modo per porre rimedio ai propri errori; è un romanzo falso perché rispecchia la vita: non si è mai liberi di scegliere come andrà a finire.

E allora non solo ho capito quale fosse il giusto finale del libro, ma ho trovato anche la soluzione che stavo cercando. Euforico, con l’ultima birra l’ho spiegato a Marcos. Gli ho spiegato che prima di pubblicarlo lo avrei riscritto completamente. Cambierò i nomi, i luoghi, le date, gli ho spiegato. Mentirò su tutto, ma solo per dire meglio la verità. […]
«E come finisce?» ha chiesto.
Ho abbracciato con lo sguardo il bar semideserto e, sentendomi quasi felice, ho risposto: «Finisce così».

4 commenti:

  1. Non conosco Cercas. Tuttavia questo della metamorfosi di un uomo di fronte al successo è uno dei grandi temi della nostra contemporaneità e, se scrivi che lo affronta bene, allora sarà sicuramente interessante leggerlo.
    Bye&besos

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    1. Un bel romanzo, mia cara. Anche se… non te lo regalerei, ecco! Non credo sia il tuo genere. Per qualche curiosa ragione, invece, ti ho pensato tantissimo mentre leggevo “La promessa, La panne, Sera d’autunno” di Dürrenmatt. Qualora non avessi ancora letto questi tre racconti, devi farlo assolutamente! Ti piaceranno, ne sono certa. Un abbraccio.

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  2. ma pensa i casi della vita. Scoprire uno scrittore. Decidere, d'istinto, di comprare un suo romanzo -che non è quello che gli ha dato il successo- e trovarlo bello e pieno di spunti riflessivi. Per questo adoro i Saloni del libro!!! :)

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    1. Eh già! Sarà anche vero che ormai questi eventi sono così diffusi da aver generato un fenomeno modaiolo. Però, vuoi mettere il piacere di incontrare altri lettori, ascoltare scrittori amati, scoprire nuovi scrittori, incrociare altre storie, perdersi in mille fantasticherie… Ah, continua a valerne la pena, altroché!

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