Javier Cercas, La velocità della luce,
Ed. Guanda, trad. Pino Cacucci.
Al Salone internazionale del libro di Torino ho ascoltato un
paio di interventi di Javier Cercas. Prima di allora non
sapevo chi fosse, né avevo mai sentito parlare del suo - ho scoperto, fortunato
libro - I soldati di Salamina. Mi è
sembrato un uomo molto divertente, ironico, prodigo di osservazioni acute e con
una buona conoscenza della lingua italiana.
Istintivamente ho acquistato un suo
libro. Non I soldati di Salamina ma
il meno venduto La velocità della luce, opera scritta e pubblicata
immediatamente dopo il suo grande successo. Una scelta irrazionale: non ne
avevo letto alcuna recensione, non me ne aveva mai parlato nessuno; ho preso il
libro senza sbirciare né l’incipit né la trama
Ammetto che le prime pagine non mi hanno catturato ma da un
certo punto in poi non ho fatto altro che leggere e rimuginare, passare dal
romanzo alla quotidianità, dalla finzione alle guerre che si combattono per la
pace e per la democrazia di generici paesi terzi, che ci dicono essere “in via
di sviluppo”; quelle guerre che da anni imperversano sui nostri quotidiani e
che non consideriamo mai vere e proprie guerre.
La velocità della
luce ruota intorno a grandi temi: la scrittura, il senso di colpa,
il successo, la guerra del Vietnam, i problemi morali e civili. L’io narrante è
un giovane catalano squattrinato che sogna di diventare uno scrittore e che,
nell’arco dei diciassette anni ripercorsi nel romanzo, lo diventerà. Uno
scrittore di successo. Insomma, una biografia fittizia dello stesso Cercas.
Ma il successo non migliora la vita, anzi fa
emergere il lato peggiore del carattere del protagonista. Il successo riesce a
trasformare un ragazzo umile e sensibile in un uomo strafottente, volgare,
prepotente. Il successo di uno scrittore può distruggere l’identità dell’uomo
che abitava quello scrittore.
Adesso conduco una
vita falsa, una vita apocrifa, clandestina e invisibile sebbene più reale che
se fosse vera, ma io ero ancora io quando conobbi Rodney Falk. Fu molto tempo fa e avvenne a Urbana, una città del Midwest degli Stati Uniti, dove vissi due
anni verso la fine degli anni ottanta. A essere sincero, ogni volta che mi
chiedo perché finii proprio lì mi dico che andai a parare da quelle parti come
sarei potuto andare in qualsiasi altro posto. Racconterò perché, invece di
andare a parare in qualsiasi altro posto, finii proprio lì.
Rodney Falk è l’altro protagonista del
romanzo.
Era alto,
corpulento, un po’ sgraziato; camminava con lo sguardo fisso a terra e a
falcate irregolari, sbandando sulla destra con una spalla più alta dell’altra,
cosa che conferiva al suo incedere un’instabilità ondeggiante da pachiderma sul
punto di crollare a terra. Aveva i capelli lunghi, folti e rossicci, e la
faccia ruvida e larga, la pelle lievemente arrossata e i lineamenti come
scolpiti sul cranio: il mento squadrato, gli zigomi sporgenti, il naso aquilino
e la bocca piegata in una smorfia ironica o sprezzante […] Soffriva di
fotofobia a un occhio, il che lo costringeva a proteggerlo dalla luce del sole
con una benda di stoffa nera legata alla testa con un nastro, una toppa che gli
dava un’aria da ex combattente, suffragata dall’andatura zoppicante e dal corpo
leso.
Rodney Falk non ha amici, è un uomo taciturno,
un tipo strambo. È un veterano del Vietnam, uno dei tanti diciottenni costretti
dal proprio Paese a mettere a tacere la coscienza e a compiere il proprio
dovere di buoni americani, a perpetrare le peggiori atrocità in una guerra
estranea ed assurda per poi tornare in Patria ed essere trattati da criminali;
disprezzati e rinnegati per aver combattuto una guerra ingiusta e essere
tornati da perdenti.
La
velocità della luce è dominato dal senso di colpa. Un senso di colpa che nasce dalla
violazione delle proprie regole di condotta; il senso di colpa per aver tradito
la propria coscienza, il proprio credo, i principi su cui era stata fondata la propria
esistenza.
Non è una storia a lieto fine; non si capisce
cosa spinga un uomo a fare del male ad altri uomini; non c’è un modo per porre
rimedio ai propri errori; è un romanzo falso perché rispecchia la vita: non si
è mai liberi di scegliere come andrà a finire.
E allora non solo
ho capito quale fosse il giusto finale del libro, ma ho trovato anche la soluzione
che stavo cercando. Euforico, con l’ultima birra l’ho spiegato a Marcos. Gli ho
spiegato che prima di pubblicarlo lo avrei riscritto completamente. Cambierò i
nomi, i luoghi, le date, gli ho spiegato. Mentirò su tutto, ma solo per dire
meglio la verità. […]
«E come finisce?»
ha chiesto.
Ho abbracciato con
lo sguardo il bar semideserto e, sentendomi quasi felice, ho risposto: «Finisce
così».
Non conosco Cercas. Tuttavia questo della metamorfosi di un uomo di fronte al successo è uno dei grandi temi della nostra contemporaneità e, se scrivi che lo affronta bene, allora sarà sicuramente interessante leggerlo.
RispondiEliminaBye&besos
Un bel romanzo, mia cara. Anche se… non te lo regalerei, ecco! Non credo sia il tuo genere. Per qualche curiosa ragione, invece, ti ho pensato tantissimo mentre leggevo “La promessa, La panne, Sera d’autunno” di Dürrenmatt. Qualora non avessi ancora letto questi tre racconti, devi farlo assolutamente! Ti piaceranno, ne sono certa. Un abbraccio.
Eliminama pensa i casi della vita. Scoprire uno scrittore. Decidere, d'istinto, di comprare un suo romanzo -che non è quello che gli ha dato il successo- e trovarlo bello e pieno di spunti riflessivi. Per questo adoro i Saloni del libro!!! :)
RispondiEliminaEh già! Sarà anche vero che ormai questi eventi sono così diffusi da aver generato un fenomeno modaiolo. Però, vuoi mettere il piacere di incontrare altri lettori, ascoltare scrittori amati, scoprire nuovi scrittori, incrociare altre storie, perdersi in mille fantasticherie… Ah, continua a valerne la pena, altroché!
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