Francesco Piccolo mi era antipatico.
Mi è capitato di leggere qualche suo articolo; alcune sue
sceneggiature mi son piaciute moltissimo (specie quelle con Virzì e Soldini); eppure,
le poche volte in cui l’ho sentito chiacchierare dal vivo, l’ho trovato
insopportabile. Non tanto per ciò che diceva, ma per quel tono un po’ snob di
persona che sa tutto e che l’ha capito prima degli altri. Quindi, quando
l’amica bibliotecaria mi ha allegramente comunicato che il prossimo libro del
gruppo di lettura sarebbe stato Il desiderio di essere come Tutti, non ho mostrato grande entusiasmo.
Il mio “Va bene” nascondeva un chiaro “No, dai!, un libro così
commerciale, per giunta Premio Strega (2014), pure di un autore antipatico! Una
proposta più invitante, no?”. Insomma, ho iniziato a leggere Il desiderio di essere come Tutti
solo per il gusto di poter confermare un mio Piccolo pregiudizio. Ma sbagliavo.
È un libro curioso, un mix tra autobiografia e cronaca
dell’Italia e della sinistra italiana degli ultimi 40 anni; un romanzo che non
sa di romanzo, in cui la narrazione si intreccia con le pagine dell’Unità e del
Diario di Deaglio, un libro in cui la vita privata si mescola con gli scossoni della politica
italiana.
Tutto inizia negli anni in cui di Germanie ce ne sono due: la
GermaniaGermania e quell’altra, quella con la squadra B, costituita da
giocatori sconosciuti. La Germania più brutta e più debole, quella di riserva,
con le tute azzurre che sembrano cucite dalle madri dei calciatori. Sono i
mondiali di calcio del 1974 e al settantottesimo minuto, prima che quell’altra Germania compia il miracolo, la vita di Piccolo cambia.