Il 25 marzo scorso si è spento Antonio Tabucchi. Sono rimasta come stordita davanti alla televisione; il bucato spiegazzato tra le mani, la finestra aperta e la giornalista di Rainews 24 che ripercorreva brevemente la vita dello scrittore. Mi sono fermata lì, immobile, anche quando la giornalista è passata alla notizia successiva. È la prima volta che la morte di un autore, o comunque di un personaggio pubblico, mi colpisce in questo modo (purtroppo, pochi giorni dopo, la sensazione si è ripetuta con la scomparsa della Mafai).
Tabucchi rappresenta il mio incontro con la narrativa contemporanea, la prima scelta nell’acquisto di un libro non influenzata da alcuno. Ricordo il giorno in cui acquistai Sostiene Pereira. Gli esami di maturità erano terminati da un po’, la mia vita aveva preso un nuovo corso, ed io non ero stata mai tanto confusa e spaesata come allora. Per un verso, quel libro rappresenta anche una riconciliazione con la lettura e la riscoperta del piacere di leggere. Sono stata una lettrice appassionata nell’infanzia; sono diventata una lettrice distratta e irregolare durante l’adolescenza. Prendevo in prestito qualche volume dalla biblioteca o chiedevo in regalo ai miei genitori libri di cui avevo sentito parlare. Ma trascorrevano anche lunghi mesi senza che un libro comparisse sul mio comodino.
Comprai Sostiene Pereira non per l’eccezionale successo riscosso dal libro ma perché, entrata in libreria, ne lessi l’incipit e qualche frase qua e là; mi incuriosì; pagai, tornai a casa e lo iniziai subito. Quel giorno, dentro di me è stata pizzicata una corda e da quel momento la lettura è diventata una parte essenziale della mia quotidianità.
Tabucchi è stato anche l’involontario responsabile del mio invaghimento per il Portogallo, della scoperta di Pessoa e della letteratura portoghese. A Siena seguii alcune delle sue lezioni quando era ordinario di Lingua e letteratura portoghese presso la facoltà di Lettere e Filosofia. Che non era la mia Facoltà. Andai ad ascoltare solo un paio di lezioni perché, mentre ero lì, mentre lo sentivo parlare, per la prima volta ebbi la consapevolezza di aver scelto la facoltà sbagliata. Ma accorgersene al quarto anno mi sembrò una scoperta tardiva. E mi incamminai verso le aule di Scienze Politiche.
Notturno indiano giaceva nella mia libreria insieme a Viaggi e altri viaggi da qualche tempo. Ho voluto salutare Tabucchi a modo mio, attraverso le sue parole.
Notturno indiano mi ha fatto compagnia in una domenica nuvolosa: l’atmosfera migliore per leggere questo libro. Brevi o lunghi che siano, Tabucchi riesce a portare nei suoi romanzi quella saudade che non è malinconia né nostalgia; è una faccenda complessa, intraducibile in italiano.
“Malinconia causata dal ricordo di un bene perduto; dolore provocato dall’assenza di un oggetto amato; ricordo dolce e insieme triste di una persona cara”. È dunque qualcosa di straziante, ma può anche intenerire; e non si rivolge esclusivamente al passato ma anche al futuro, perché esprime un desiderio che vorreste si realizzasse. E qui le cose si complicano perché la nostalgia del futuro è un paradosso. Forse un corrispettivo più adeguato potrebbe essere il disìo dantesco che reca con sé una certa dolcezza visto che “intenerisce il core”.
Nella scrittura di Tabucchi c’è sempre un po’ di saudade e Notturno indiano non fa eccezione. Lo si può leggere come una ricerca di sé, oppure come una ricerca di qualcun altro scomparso nel nulla; si può leggere come un libro di viaggio, disseminato di luoghi reali, alberghi che esistono davvero, tra stanze d’ospedale da cui i degenti, forse, non usciranno più; l’odore della povertà e della malattia.
Si può leggere semplicemente come un racconto di un viaggio realmente avvenuto, spostandosi da un luogo all’altro con la guida India, a travel survival kit nella borsa.
E allora, forse, Notturno indiano diventa la narrazione di un viaggio fatto in un passato lontano e trasfigurato dal ricordo.
Sul momento potrà sembrare un’occasione non particolarmente fortunata; ma nel ricordo, come sempre nei ricordi, decantata dalle sensazioni fisiche immediate, dagli odori, dal colore, dalla vista di quella certa bestiolina sotto il lavabo, la circostanza assume una sua vaghezza che migliora l’immagine. La realtà passata è sempre meno peggio di quello che fu effettivamente: la memoria è una formidabile falsaria.
Viaggi e altri viaggi rivela un Tabucchi un po’ diverso.
Il Tabucchi curioso, innamorato di luoghi, persone, arte, natura. Il Tabucchi che torna periodicamente in Grecia; il Tabucchi conquistato dagli ulivi centenari di Creta; il Tabucchi che si ferma nel più antico caffè del Cairo, Cafè Fishawi, con un libro di Mahfuz, o che sosta a Barcellona, in Plaça del Diamant, con l’omonimo libro di Mercè Rodoreda.
Viaggi e altri viaggi è una raccolta di divagazioni, sensazioni, profumi e immagini catturate qua e là, in periodi diversi. Il viaggio che si mescola con la vita e ne diventa parte integrante.
E poi c’è il sapore dei viaggi non fatti, quelli sognati seguendo i versi dei poeti, le immagini dei film, le parole degli antropologi e degli scrittori. I viaggi dell’immaginazione, vissuti per interposta persona.
Altri viaggi, appunto.
Ma, a conti fatti, ho viaggiato molto, lo ammetto; ho visitato e vissuto in molti altrove. E lo sento come un grande privilegio, perché posare i piedi sul medesimo suolo per tutta la vita può provocare un pericoloso equivoco, farci credere che quella terra ci appartenga, come se essa non fosse in prestito, come tutto è in prestito nella vita. Costantino Kavafis ha detto in una straordinaria poesia intitolata Itaca: il viaggio trova senso solo in sé stesso, nell’essere viaggio. E questo è un grande insegnamento se ne sappiamo cogliere il vero significato: è come la nostra esistenza il cui senso principale è quello di essere vissuta.