giovedì 14 settembre 2017

Il mio Vietnam, Kim Thúy



È una domenica mattina che sa già d’autunno; i volontari in maglietta blu del Festival della Letteratura di Mantova sono gli unici ad attraversare velocemente Piazza Sordello; sotto i portici, le bancarelle dei libri usati sono ancora coperti dai teloni, la biglietteria del Palazzo Ducale è vuota. E poi c’è una fila di persone in giacca a vento e ombrello, disposta ordinatamente all’ingresso del Seminario Vescovile. 
La prima a stupirsi della fila è Kim Thúy. «Non pensavo che tutte quelle persone fossero lì davanti per me. Sono tornata indietro e ho scattato una foto».
La immaginavo esile, pacata, con un tono di voce sommesso e una sorta di timidezza nel raccontarsi. Invece vedo una ragazza di quasi 50 anni, bassina ma dalla corporatura robusta, la risata sonora, la voce squillante e lo stesso modo di gesticolare di un’italiana. È simpatica, divertente, loquace, così loquace da gestire autonomamente l’incontro, lasciando pochissimo spazio al povero Marcello Fois (che resta uno straordinario presentatore e, ancora una volta, sponsorizza libri e autori fuori dal comune).
Kim Thúy, originaria di Saigon, Vietnam del Sud (quando non era ininfluente dire Nord o Sud), è stata una boat people, una delle tante persone fuggite dalla guerra, via mare, all’età di dieci anni. Prima di partire, la sua famiglia ha visto sparire ricchezze e proprietà terriere, espropriate dall’esercito del Nord. Durante gli ultimi mesi trascorsi in Vietnam, Kim Thúy ha vissuto in una casa, appartenuta per decenni alla sua famiglia, in cui non aveva neppure più il diritto di aprire armadi e cassetti: la coabitazione con i soldati del nord lo vietava categoricamente. Soprusi e persecuzioni hanno dissolto le speranze della popolazione del sud. Con lo svanire dell’agiatezza economica e dell’idea di futuro, la famiglia di Kim non ha visto alternative se non salire su una barca e attraversare l’oceano.
«Anche oggi, di fronte all’ennesimo sbarco, ci si chiede perché continuino a venire, perché i migranti continuino a sfidare la morte. Io lo so. Quando partono sono già morti. È l’ultima possibilità: non potrà accadere niente di peggio di ciò che si sta vivendo. Il futuro già non esiste più».
Dopo un viaggio sfibrante nelle peggiori condizioni possibili, la barca di Kim arriva in Canada, dove trova un’accoglienza meravigliosa. «I canadesi sono stati fantastici. Aspettavano l’arrivo dei boat people per fornire un primo servizio di assistenza. Io ero sporca, malaticcia, denutrita ma non mi sono mai sentita così bella come quando sono arrivata in Canada. Vedevo l’amore negli occhi di chi ci stava accogliendo».
Kim Thúy oggi è una donna determinata che ha sconfitto allergie e malesseri: «Sono partita dal Vietnam con tutte le allergie possibili. Dopo mesi in mare e il periodo nel campo profughi, sono diventata immune a tutto». È una donna che ha vissuto molte vite: è stata interprete, avvocato, giornalista gastronomico, ha gestito un ristorante e ancora non ha deciso cosa farà da grande.
Nelle sue tante vite, Kim Thúy è tornata per un periodo in Vietnam, dove ha lavorato come avvocato. «Le persone pensano che, finita la guerra, ogni paese torni alla normalità da un giorno all’altro. Non è così. È come se la guerra non finisse e il paese che si trova è sempre un paese diverso da quello che si conosceva. In molti mi chiedono se mi senta canadese o vietnamita: entrambe, anche se i vietnamiti mi dicono che sono troppo robusta e che il mio tono di voce è troppo elevato per essere una vietnamita. Il Canada mi ha dato tanto ed io ho assimilato tanto dalla cultura canadese».
Sebbene non sia completamente autobiografico, Il mio Vietnam raccoglie molti frammenti della vita di Kim Thúy e delle persone che l’hanno aiutata a diventare la donna che è oggi. 
La scrittura asciutta lascia al lettore l’incombenza di riempire i vuoti tra una pagina e l’altra. Dopo il disorientamento iniziale, si comprende la potenza del non detto e emergono le difficoltà di chi sta cercando la sua strada tra due culture opposte.
«Nessun vietnamita si sognerebbe mai di chiedere ad un’altra persona “Come va?”. È una domanda troppo filosofica, non si può rispondere con un bene o male o raccontare come ci si senta. Nella cultura vietnamita, pensieri e sentimenti vengono custoditi gelosamente e non si incoraggia ad esternarli come accade nella cultura occidentale».
Il mio Vietnam, magnificamente tradotto da Cinzia Poli, è un libricino potente, che ci ricorda cosa sia la guerra, quali ripercussioni si porti dietro e quanto sia difficile attraversare il dolore e preservare la bellezza delle cose. «Bisogna darsi da fare ogni giorno per preservarne la bellezza. Perché la bellezza è fragile». 

Kim Thúy, Il mio Vietnam (titolo originale: Vi), traduzione di Cinzia Poli, Nottetempo edizioni.

Qui un assaggio del libro (anche se, a mio avviso, occorre andare oltre le pagine iniziali per poter entrare in questo romanzo).

12 commenti:

  1. Ecco un libro che insegna come un paese può reagire alle tragedie del mare, dimostrando ancora una volta come in Canada riescano persino a rianimare migranti morti dentro.

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    1. Kim Thuy parlava e io pensavo ai nostri giorni. Certo, era il Canada di 40 anni fa, certo le condizioni economiche canadesi non sono paragonabili a quelle italiane, però qualche considerazione bisognerà pur farla. Tra l'altro, vengo da altri due romanzi (bellissimi) sul medesimo tema e non nascondo che sto riflettendo molto. Su me, come persona, sul mio paese, sull'informazione (o la disinformazione) e sulla paura che si sta diffondendo nei confronti dell'altro.

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  2. DA ANNI desidero andare a Mantova per il festival...DA ANNI :(
    P.s. prendo subito nota!

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    1. Se dovesse arrivare l’anno di Mantova, batti un colpo. Troveremo sicuramente 5 minuti per un caffè insieme.

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  3. Ribadisco la tua grande capacità di segnalare libri. Sempre avvincente ed efficace; effettivamente l' assaggio di lettura è molto interessante e rivela una bella scrittura. Ciò detto, hai ragione, non si può non pensare ai giorni nostri ai dubbi che assalgono me di fronte alla coralità di chi dice " bene, sono dominuiti gli sbarchi", tacendo ( ?) di precisare dove sono finiti coloro che sarebbero sbarcati o morti in mare. Quando leggo persone che ritenevo stimabili sostenere questo sollievo, tutto mi turbina nel cervello. C' è un film che circola e che a me è sembrato bellissimo ( in senso doloroso, naturalmente) ed è "L' ordine delle cose" di Andrea Segre. Perfetto nella scelta di non usare facili emozioni da fiction televisiva; tragico nella presentazione di un dilemma etico di non facile soluzione. Un film che rappresenta i problemi ( regia perfetta, attori notevoli). Un' epoca, la nostra, di tragedia diffusa e di incapacità di pensare soluzioni.

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    1. Mi sono interrogata molto su ciò che hai scritto. Sono solo diminuiti gli sbarchi o, forse, ci sono ulteriori tragedie che non ci stanno raccontando? Quando non ci sono cadaveri da mostrare, sparisce la notizia.
      Come ho scritto nel commento precedente, per una serie di coincidenze, ho letto altri due libri che ruotano intorno allo stesso tema: Voci del verbo andare di Jenny Erpenbeck (eccezionale premio strega europeo 2017, edito da Sellerio e che ti consiglio caldamente) e Appunti per un naufragio, una sorta di reportage di Davide Enia (interessante ma non paragonabile all’altro libro citato).
      Recupererò il film di Andrea Segre, che non ho ancora visto. Grazie a te per la segnalazione.

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  4. Carissima bellissimo questo tuo articolo. Ho provato le stesse sensazioni all'incontro con Kim e leggendo questo stesso libro..... a presto, paolo

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  5. Grazie della dritta molto interessante

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  6. Bellissimo articolo. Ho adocchiato da un po' questo libro perché sono sempre interessata a racconti ed esperienze di paesi lontani e a me sempre troppo sconosciuti, grazie alla tua recensione e al racconto dell'incontro con l'autrice mi hai convinta ancora di più a leggerlo.

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    1. Speriamo possa piacerti. Mi dicono sia molto bello anche Riva (della stessa autrice). Ti farò sapere.

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  7. Libro quanto mai attuale. E viva il Canada!

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    1. Viva! Il Canada non sarà un mondo perfetto però, ad ascoltare l’autrice, mi sono un po’ vergognata della nostra “politica” dell’accoglienza. E quando dico nostra, intendo quella europea.

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